Il Lago di Luce di Jack WIlliamson è apparso la prima volta sulla rivista Astounding Stories, nell’aprile del 1931. Noi lo abbiamo tradotto per voi e lo stiamo presentando in quattro puntate. La prima puntata è apparsa giovedì 3 aprile, la seconda il 10 aprile. Questa è la terza puntata.
«Lei non c’è più. C’era solo quando ero piccola.»
La voce chiara e argentina ora era più sicura.
«Una volta, quando ero quasi grande lei… non si è più mossa. Era fredda. Se la chiamavo non faceva niente. L’hanno portata via le Cose. Era morta, credo. Mi aveva detto che, un giorno, sarebbe stata morta.»
Nei grandi occhi azzurri apparvero lacrime brillanti che le scesero lungo il volto perfetto. Nella sua voce lenta si percepiva un patetico singhiozzo, un’esitazione. Mi voltai, e Ray sollevò un fazzoletto al viso.
«Come ti chiami? E chi sei?» chiese Ray gentile.
«Sono Mildred. Mildred Meriden.»
«Meriden!» Ray si voltò verso di me. «Ma allora, è la figlia del maggiore e della moglie!»
«Padre era il maggiore,» disse sempre lentamente la ragazza. «Lui e madre arrivati con macchina volante, da una terra lontana. Le Cose hanno bruciato la macchina con fuoco rosso. Sono entrati qui, ma le Cose li hanno presi. Hanno fatto cantare madre sopra l’acqua. Hanno ucciso padre. Non l’ho mai visto.»
«Ecco,» disse Ray con dolcezza. «Noi veniamo dalla stessa terra. Abbiamo visto la macchina di tuo padre in cielo.»
«Voi venite da fuori! E tornate indietro? Oh, portatemi con voi! Portatemi!»
La voce supplicava ed era straziante.
«Qui è tanto… solitario da quando le Cose hanno portato via madre. Madre mi diceva che un giorno sarebbero venuti gli uomini per portarmi via a vedere la gente e il di fuori di cui parlava. Vi prego, portatemi!»
«Ma certo! Verrai con noi appena ce ne andremo… se riusciremo ad andare.»
«Oh, sono davvero contenta! Voi sete molto buoni!»
D’impulso, lei gettò le braccia al collo di Ray. Lui si sciolse delicatamente dall’abbraccio, anche arrossendo. Notai, tuttavia, che non sembrava per niente infastidito.
«Ma come si fa a uscire?»
«Mamma e io ci abbiamo provato, ma non ci siamo riuscite. Le Cose sono attente. Mi fanno venire all’acqua a cantare quando suona la grande campana.»
«Questa roba è buona da mangiare?» indicai la brillante foresta di funghi. Avevo cominciato a temere che Ray non arrivasse mai a questo punto davvero basilare.
Gli occhi azzurri mi scrutarono. “Mangiare? Oh, fame! Venite! Ho del cibo.»
Afferrò la mano di Ray come una bambina portandolo verso la giungla di funghi. Io li seguii, e ci infilammo tra i carnosi steli brillanti e dorati. I funghi si allungavano in un intreccio di frange piumate e luminose sopra di noi, enormi e robusti come tronchi d’albero.
In pochi minuti arrivammo a un canale largo, ma poco profondo con pareti metalliche, in cui scorreva lento un liquido opalescente e luminoso. Lo attraversammo su uno stretto ponte di metallo e proseguimmo per la foresta scintillante.
Di colpo sbucammo in una piccola radura e al di là si vedevano le acque nere del grande lago e un tratto di spiaggia rocciosa lunga mezzo chilometro.
Nel centro dello spiazzo si ergevano tre cilindri di cristallo azzurro, affiancati uno all’altro. Ognuno aveva un diametro di circa sei metri e un’altezza di almeno dodici. Brillavano di una luce blu chiara, simile a quella degli edifici cilindrici che avevamo visto nella strana città sotto il grande lago abitato dalle creature a forma di granchio.
Mildred Meriden, la ragazza straordinariamente bella che non aveva mai conosciuto altro mondo al di fuori di questo incredibile impero sotterraneo dove regnavano granchi giganteschi, con un’eleganza naturale e regale ci fece cenno di entrare, attraverso la porta ad arco incastonata nel muro di zaffiro blu di quella sorprendente dimora fatta di cilindri collegati tra loro.
Il cristallo delle pareti era anche quello luminoso e i cilindri altissimi erano colmi di una radiosità liquida e azzurra. La stanza circolare in cui entrammo era arredata in modo insolito. C’era un divano di seta, una vasca da bagno di cristallo blu piena d’acqua luminosa, un curioso comò di alluminio brillante con uno specchio di cristallo levigato, sul cui piano erano appoggiati strani pettini e altri oggetti. Tutte cose probabilmente realizzate dai granchi giganti, sotto la guida di esseri umani.
Mildred ci guidò oltre la stanza, passando attraverso un’altra apertura ad arco. Al centro di quella sala c’era un tavolo rotondo in alluminio, con accanto due curiose sedie metalliche. Appoggiati alle pareti blu brillanti c’erano degli armadietti metallici dalle forme insolite. La ragazza ci fece accomodare mettendo davanti a noi dei piatti.
Servì a ciascuno una ciotola di zuppa densa e dolce, color rosso scuro; a cui seguì un piatto colmo di piccole focaccine rotonde, croccanti e brune, dal profumo irresistibile e, infine, in un calice di cristallo trasparente versò una limpida bevanda ambrata.
Ci lanciammo sul cibo con entusiasmo e senza ritegno.
«Le Cose hanno costruito questo posto per padre,» ci spiegò la ragazza mentre mangiavamo, attenta a riempire ogni volta con la zuppa rossa la grande ciotola blu, a portarci altre focaccine, o altra bevanda ambrata e profumata. «Gli davano tutto quel che chiedeva. Ma quando cercò di scappare con madre, loro lo hanno ucciso.»
«Dobbiamo andarcene di qui,» dichiarò Ray alla fine del pasto. «Dobbiamo raccogliere una buona scorta di cibo e abiti caldi per tutti. Dovremmo riuscire a raggiungere il margine della calotta di ghiaccio. Dobbiamo seminare quei granchi prima che si accorgano della nostra presenza… ammesso che già non lo sappiano.»
Mildred ascoltava con entusiastica attenzione: era così poco abituata al linguaggio umano che le costava un certo sforzo capire, anche se sua madre le aveva trasmesso un’istruzione piuttosto ampia. Ci assicurò che il cibo non sarebbe stato un problema.
«Madre mi ha insegnato a preparare il cibo,» disse. «Diceva sempre che un giorno sarebbero arrivati uomini con armi da fuoco e grande rumore, capaci di distruggere e uccidere le Cose. Ho già preparato delle provviste, in sacche… più di quante possiamo portare. Ho anche le pellicce di madre e di padre.»
Corse in un’altra stanza e tornò con un grosso mucchio di indumenti in pelliccia, che esaminammo e trovammo in ottime condizioni.
«È il momento giusto,” disse Ray. «Mi piacerebbe sapere di più su quei granchi giganti, ma ci sarà tempo, più avanti. Ora la cosa più importante è Mildred. Dobbiamo portarla via. Poi potremo raccontare al mondo di questo posto e tornare con una spedizione più grande.»
«Pensi ci sarà possibile raggiungere la costa?»
«Penso di sì. Sarà difficile per Mildred. Ma avremo cibo; probabilmente nell’aereo dei Meriden potremo trovare carburante per la stufa, se i serbatoi sono ancora ben sigillati. E il Capitano Harper dovrebbe aver organizzato una squadra di soccorso per venirci a cercare. Forse dovremo fare da soli solo gli ultimi cinquecento o seicento chilometri.»
«Cinquecento o seicento chilometri, in terre come quelle dell’ultima settimana e con una ragazza! Ray, non ce la faremo mai!»
«È l’unica possibilità.»
Non dissi altro. Sapevo che i miei piedi congelati non avrebbero sopportato un viaggio come quello, ma decisi di non dire nulla. Li avrei aiutati fin dove ce la potevo fare e poi, una notte, mi sarei allontanato da solo. Già altri lo hanno fatto.
Mildred portò dei sacchi pieni di focaccine e di una polvere rossa che forse era la polpa essiccata e macinata di un fungo cremisi. Preparammo un fagotto a testa, il più pesante possibile per le nostre forze.
Poco prima di partire, Ray mi tolse le calzature e mi curò i piedi con il suo kit medico. Temevo la cancrena, ma lui mi assicurò che non c’era pericolo, con un trattamento attento. Per me era ancora dolorosissimo camminare, mentre uscivamo silenziosamente dalla porta ad arco, verso la foresta fungina che circondava l’abitazione fatta a cilindri blu.
Avanzammo il più velocemente e silenziosamente possibile attraverso la scintillante foresta di funghi, attraversammo il fiume di liquido opalescente e raggiungemmo la base della cascata infuocata. Una visione strana e maestosa: quell’arco verticale di fiamma bianca luccicante, che ruggiva tuffandosi in una pozza di luce, circondata da una nebbia simile a fuoco lunare.
Arrivammo ai piedi della scala di metallo fissata nella roccia accanto alla cascata e cominciammo subito a salire. Non fu facile. I pacchi di cibo, già pesanti in condizioni normali, erano una vera sfida mentre ci arrampicavamo su pioli distanti più di un metro l’uno dall’altro.
Ray era davanti, con una corda legata alla vita e assicurata a Mildred, così da poterla aiutare in caso di perdita di equilibrio. Io salivo per ultimo. Eravamo a metà parete quando, all’improvviso, su di me si accese una luce rossa, proiettando la mia ombra ben visibile contro la roccia. Alzai lo sguardo e notai un raggio ampio e intensamente rosso, come quello dell’arma a calore usata dal granchio che avevamo incontrato.
Il raggio proveniva, con ogni evidenza, dalla riva del grande lago e dalla sua città di cilindri blu sommersi. Colpì la parete della roccia poco sopra di noi. In pochi istanti la scala diventò rovente come un carbone acceso. La superficie della roccia si fece incandescente cominciando a creparsi. Su di noi piovvero scintille bollenti.
Il raggio cominciò a scendere lentamente, nella nostra direzione.
«Credo che non ce la possiamo fare,» disse Ray. «Loro hanno il vantaggio. Meglio scendere, Jim. Tra poco questa scala ci brucerà le mani.»
Scivolai giù. Mildred e Ray mi seguirono velocemente.
Il raggio ci inseguiva, e la scala era rosso vivo appena sopra le mani di Ray.
Guardai in basso e vidi una dozzina di granchi giganti avanzare faticosamente fuori dalla giungla fungina, in direzione del grande lago. Erano orribili, con occhi sporgenti, antenne verdi e lucenti, corazze rosse e lucide, arti dotati di pinze. Come quello che avevamo incontrato nella caverna superiore, indossavano armature bianche di metallo luminoso.
Scendemmo giù in fretta, inseguiti dal raggio rosso.
Mi lasciai cadere a terra tra quelle creature, sudato per l’orrore. Mi assalì un’ondata di nausea per l’odore insopportabile dei granchi; era davvero indescrivibile, devastante.
Da quegli esseri uscivano strani suoni striduli, raschianti, forse una forma di comunicazione che infatti Mildred sembrava comprendere.
«Dicono che non vi faranno niente, ma che non potete uscire,» ci disse lei.
Fui afferrato da chele come delle pinze, bloccato in una morsa inesorabile, mentre quegli occhi luccicanti si contorcevano per fissarmi e le antenne verdi si agitavano su di me con movimenti incongrui. Lo stomaco mi si rivoltò per il terribile fetore.
I granchi mi strapparono il fagotto e perfino i vestiti. Ray subì lo stesso trattamento appena arrivato giù. Tolsero il suo pacco anche a Mildred, ma lei fu trattata con una incomprensibile forma di rispetto.
Dopo pochi minuti, ci lasciarono andare. Non avevamo più i nostri fagotti, né fucile o munizioni, perso il kit medico e gli strumenti che avevamo portato con noi dall’aeroplano, e naturalmente i vestiti. Ci lasciarono completamente nudi. Ray aveva viso e collo rossi fuoco, guardando Mildred accanto a lui.
Da uno degli esseri provenne un altro suono stridulo.
«Dice che potete restare con me,» tradusse Mildred. «Non vi faranno del male, a meno che non proviate di nuovo a fuggire. Se lo farete, morirete… come è successo a mio padre. E quanto vi hanno tolto, resterà di loro proprietà.»
Alcune delle creature si allontanarono raschiando il terreno e si portarono gli oggetti che ci avevano tolto, chi tra le chele, chi dentro contenitori metallici presi chissà dove. Altri esseri rimasero a fissarci con quei loro occhi compositi, su steli mobili e agitavano le antenne verdi che forse erano organi di un senso per noi ignoto.
Due delle creature si fermarono ai piedi della scala di metallo, stringendo tra le chele i lunghi e sottili tubi bianchi che producevano il raggio di calore.
«Dicono che adesso possiamo andare,» tradusse Mildred.
La donna di allontanò verso il limite della giungla luminosa. Era del tutto priva di pudore, perché la vidi lanciare occhiate ammirate alla bianca figura snella e muscolosa di Ray. Noi le andammo dietro in mezzo ai giganteschi funghi, felici di allontanarci dal fetore soffocante dei granchi.
In pochi minuti fummo di nuovo nella curiosa dimora dei tre cilindri blu. Mildred, finalmente notò il nostro disagio per essere nudi e ci diede un pezzo di stoffa bianca e setosa con cui potemmo coprirci.
Aveva notato anche quanto mi fosse difficile camminare scalzo e, allora, mi fece immergere i piedi in acqua che poi trattò con un olio giallo lenitivo, bendandoli con abilità.
«In ogni caso,» disse più tardi, «è bello avervi qui. Mi dispiace per voi, che forse non rivedrete mai più il vostro paese, ma per me è una fortuna. Mi sentivo tanto sola.»
«Questi dannati granchi non mi conoscono!» borbottò Ray Summers. «Pensano che giocherò tranquillo come un gattino per il resto della mia vita! Vedranno cosa gli aspetta. Ce ne torneremo a Palm Beach per l’inverno!»
«Mi pare che gli altri siano molti più,» dissi io. «E, tutto sommato, qui dentro si sta meglio che fuori.»
«Riprenderò quel fucile,» dichiarò Ray, «e farò in modo che questi granchi schifosi imparino a rispettare l’umanità!»
«Comunque», suggerii, «Prima riprendiamoci.»
A un certo punto Mildred notò quanto eravamo stanchi. Entrò nel terzo dei cilindri blu collegati, si diede da fare per qualche minuto e poi ci chiamò per offrirci i letti che aveva preparato.
«Potete dormire,» ci disse. «Le Cose non vengono mai qui. E, poi, hanno detto che non vi faranno del male, se non provate a uscire.»
Ci sdraiammo sui letti di seta e in pochi minuti, io mi addormentai. Mi svegliai con una strana inquietudine, la sensazione di una catastrofe imminente. Ray era chino su di me, il volto teso dalla preoccupazione.
«È successo qualcosa!» sussurrò. «Lei non c’è più!»
Mi misi a sedere, fissando l’azzurro liquido che riempiva la vastità del cilindro sopra di noi.
«Ascolta! Cos’è quello?»
Un suono profondo di campana risuonò, bronzeo, martellante. Sonoro, pulsante, possente, echeggiò nelle stanze cilindriche. Lentamente si affievolì, svanendo nel silenzio con un ultimo battito vibrante. Passarono minuti tesi nel silenzio. Di nuovo risuonò, palpitò e si spense. Dopo altri lunghi minuti, si fece sentire una terza volta.
«È fuori, da qualche parte!»
Ray scattò in piedi; corse verso la porta ad arco. Fissammo la fitta foresta di funghi dorati e cremisi che cresceva sotto il tetto nero della caverna. Davanti a noi, dopo poche decine di metri di spiaggia rocciosa, iniziava il lago cristallino, con sul fondale la città dai cilindri blu.
«Dio! Cos’è quello?» Ray mi afferrò il braccio con forza.
Dalla spiaggia del lago nero ci giunse un grido sottile e lamentoso. Era un suono che chiedeva pietà, supplicava. Salì sempre più, fino a diventare una nota argentea e acuta. Era limpida e dolce, ma in modo inconsueto, un canto solitario, triste, dolente. Si affievolì lentamente, svanendo. Poi tornò a salire e a scendere, un’altra volta.
«È Mildred!» sussurrai. «Non aveva parlato di cantare per i granchi?»
«Sì! Credo di sì. Be’, se quello è cantare, è meraviglioso! Mi ha dato la sensazione di non poter mai più rivedere un essere umano. Ma senti…»
Nell’aria si levavano note liquide e trillanti, con un ritmo strano e veloce. Adesso era un canto felice, gioioso, spensierato. Quelle tonalità dorate e fruscianti mi facevano pensare al cinguettio di uccelli in un mattino di primavera. Saliva e scendeva con il ritmo puro e limpido di un ruscello di montagna.
Mildred non usava parole, solo note di musica pura.
L’allegro canto si spense.
Poi, la voce forte e limpida si alzò di nuovo, con la forza e la sfida di una fanfara, un ritmo di marcia rapido e incalzante. Pulsava con una cadenza a me sconosciuta. Mi faceva fremere i piedi, come per dirmi di mettermi in cammino; mi accelerava il battito del cuore. Era un richiamo all’azione, alla battaglia.
Obbedendo inconsciamente al suggerimento del canto, Ray sussurrò: «Andiamo a vedere che sta succedendo.»
Saltammo fuori dalla porta e corremmo per quattrocento metri di spiaggia rocciosa fino al limite del lago. Salimmo su una scogliera di granito, qualche metro sopra l’acqua, per assistere a una delle scene più strane mai viste da esseri umani.
L’acqua nera era davanti a noi, come un velo di cristallo trasparente. Sul fondo potevamo vedere gli innumerevoli gruppi di cilindri azzurri che formavano la città dei granchi. I cilindri sembravano piegarsi e ondeggiare nell’acqua.
A un centinaio di metri da noi, sopra l’acqua scura, c’era Mildred. In piedi su uno di quei sottili cilindri azzurri a pelo d’acqua. Alta, snella, di una grazia superba, con addosso solo un corpetto di seta verde, sembrava la statua di una dea scolpita nel marmo bianco. La testa era sollevata, i capelli castano dorati le scendevano sulle spalle e le note pure del suo canto si spandevano sull’acqua.
Oltre lei e tutto intorno a lei, c’erano migliaia e migliaia di granchi giganti, che nuotavano in superficie. Le loro antenne verdi spuntavano dall’acqua come una strana foresta di tentacoli luminosi, che si flettevano e ondeggiavano. Le spire verdi si muovevano a ritmo con la musica del canto.
L’ultima nota si spense. Le braccia bianche si abbassarono in un gesto conclusivo. Le migliaia di antenne verdi si ritirarono sotto l’acqua, e i grandi granchi rossi nuotarono rapidi verso i cilindri blu della loro città sommersa.
La dea bianca si voltò e ci vide.
La sua voce esplose in un grido dorato di benvenuto. Con un tuffo elegante si immerse e nuotò rapida verso di noi. Il corpo snello e bianco scivolava nell’acqua cristallina con la grazia di un pesce. Raggiunta la riva, balzò in piedi e corse verso Ray.
«Le Cose si radunano quando suona la grande campana, per ascoltare il mio canto,» disse. «A loro piace il mio canto, come piaceva quello di mia madre. Se non fosse per questo, non sarei viva. È per questo che non mi permettono di andar via.»
Fine terza puntata
Traduzione © 2025 Franco Giambalvo
le immagini sono create da Intelligenza Artificiale, Microsoft Designer.
Fu tra i primi scrittori a specializzarsi nella fantascienza, e i suoi primi scritti risalgono alla fine degli anni venti, quando questo genere era stato da poco definito sulle riviste pulp, soprattutto ad opera di Hugo Gernsback.