Il Lago di Luce è un racconto di Jack WIlliamson, uno dei più grandi autori di fantascienza, anche se le nuove generazioni forse non lo ricordano abbastanza. Questo suo racconto è apparso la prima volta sulla rivista Astounding Stories, nell’aprile del 1931. Di Williamson leggiamo su Wikipedia:

Fu tra i primi scrittori a specializzarsi nella fantascienza, e i suoi primi scritti risalgono alla fine degli anni venti, quando questo genere, al di là dell’opera dei precursori della letteratura maggiore (H. G. Wells, Jules Verne, J. H. Rosny Aîné ecc.), era stato da poco definito sulle riviste pulp, soprattutto ad opera di Hugo Gernsback. Williamson non ha mai smesso di scrivere: l’ultimo suo libro, The Stonehenge Gate, risale al 2005, un anno prima della morte, avvenuta a novantotto anni; la sua è una delle carriere più prolifiche e longeve della letteratura.

Il racconto è abbastanza lungo da consigliarci di suddividerlo in alcune puntate. Giovedì prossimo, 10 aprile, la seconda puntata. La terza puntata il 17 aprile.

 

Il Lago di Luce

Di Jack Williamson

Prima puntata

Il rombo del motore risuonava forte nell’aria gelida del deserto di ghiaccio. Il cielo su di noi era di color blu-violaceo, mentre il sole rosso pendeva basso a nord, come un occhio cremisi. Novecento metri più in basso, si vedeva attraverso una foschia azzurra di vapore congelato sferzato dal vento, l’aspra desolazione dei picchi di ghiaccio nero e le creste di neve scolpite dalla bufera: una landa cupa e ondulata, nera e gialla, macchiata di cristalli bianchi. Il vento gelido ululava lugubremente tra i montanti delle ali. Stavamo sorvolando le inquietanti montagne di ghiaccio della Terra di Enderby, in Antartide.

Era un volo pericoloso, attraverso il continente sferzato dalle tempeste. In tutti gli anni di esplorazione polare aerea, sin dai memorabili voli di Byrd, quest’area non era mai stata attraversata. Diciannove anni prima vi si era avventurato l’intrepido britannico Maggiore Meriden, insieme all’audace aviatrice americana che il mondo conosceva con il suo nome prima di essere sposata con il Maggiore come: Mildred Cross… e, come molti altri, non erano mai tornati.

Al di sopra del rumore del motore, sentii appena il grido di Ray Summers. Distolsi lo sguardo dalla desolata distesa di ghiaccio e lo guardai. La faccia magra, incappucciata di pelliccia, era rivolta verso di me. Una mano guantata a indicare qualcosa e le sue labbra sottili si muovevano ma io non lo potevo sentire per il rombo del motore e per l’urlo del vento.

Mi voltai e guardai fuori, sulla destra, al di là del cerchio argentato e scintillante dell’elica. Sotto la foschia azzurra dei cristalli di ghiaccio sospesi nell’aria, si stendeva su una vasta pianura ondulata di nero e giallo seguita da una desolazione gelata fino all’orlo del cielo violetto e freddo, interrotta appena da chiazze di prismi bianchi. E contro quel cielo vidi qualcosa di straordinario.

Una montagna di fuoco!

Oltre il deserto di ghiaccio, si innalzava dritta nell’oscura foschia ametista del cielo polare un’alta vetta conica. Era di un bianco abbagliante, un dito di fuoco color latte, una punta affilata di pura luce. Splendeva di un bagliore candido. Era di gran lunga più luminosa della sacra vetta del Fujiyama nei giorni più luminosi del Giappone.

Il Lago di Luce, WilliamsonFissai per molti minuti questa meraviglia. Era lontana; sembrava molto piccola. Somigliava a un piccolo cumulo di luce versato dalla mano di un dio del fuoco. Non riuscivo a immaginare cosa potesse essere. A prima vista, pensai che potesse essere un vulcano con fiumi di lava incandescente che scorrevano lungo i pendii. Sapevo che questo continente misterioso vantava il Monte Erebus e altri crateri attivi, ma qui non c’era né il fumo, né quelle fiamme gialle e nere che accompagnano per solito le eruzioni vulcaniche.

Stavo ancora guardando quella cosa, senza capire, quando avvenne la catastrofe, quella che ci ha poi costretti a una folle, spettacolare, incredibile avventura.

Il nostro piccolo idrovolante biposto volava bene e l’aria era insolitamente calma per questo continente tempestoso. Il motore a dodici cilindri aveva funzionato regolarmente fin da quindici ore prima, quando eravamo decollati dalla vecchia stazione di Byrd a Little America. Avevamo attraversato il polo Sud in sicurezza. Sembrava che potessimo riuscire nel nostro tentativo di superare l’ultimo punto non esplorato sulla mappa.

Poi successe.

Un improvviso schiocco di metallo spezzato risuonò nitido come un colpo di pistola. Una lama di metallo scintillante passò veloce accanto ai montanti dell’ala, per poi cadere in un lampo. Il motore all’improvviso emise un ruggito cupo e rabbioso. Un’enorme vibrazione scosse l’aereo e pensai che potesse andare in pezzi.

Ray Summers, con la sua solita efficienza, tolse accelerazione. Il motore rallentò fino al minimo; la vibrazione cessò. Un ultimo colpo di tosse del motore, e poi non rimase altro suono se non l’urlo acuto del vento nel crepuscolo cupo di questa terra sconosciuta al di là del polo.

«Che diavolo!» esclamai.

«L’elica! Ecco!» Ray indicò proprio davanti a noi.

La terribile verità mi colpì all’istante. L’elica d’acciaio non c’era più, o almeno per metà era andata. Una pala si era spezzata lungo una linea frastagliata appena sopra il mozzo.

«L’elica! Ma come ha fatto a rompersi? Non ho mai sentito…»

«E chi lo sa!» Ray sorrise amaramente. «E comunque si è rotta. Era tutta di metallo, ovviamente, ben collaudata e garantita. Ma qui non c’è garanzia che tenga. Forse un difetto di forgiatura sfuggito ai controlli. E, poi, la temperatura così bassa… rende il metallo fragile come il vetro. Chissà, forse la vibrazione lo ha cristallizzato.»

L’aereo scendeva in una planata lenta. Guardai fuori la desolata distesa di spuntoni di ghiaccio nero e di neve scintillante al di sotto e la prospettiva non era affatto rassicurante. Ma avevo una immensa fiducia in Ray Summers. Lo avevo conosciuto in Arizona, quando era arrivato nel grande ranch di suo padre per diventare una matricola nella Scuola delle Miniere a El Paso, in cui allora insegnavo geologia. Per parecchio abbiamo visitato insieme ogni strano posto del mondo, eppure, lui è rimasto sempre quel ragazzone, schietto e semplice del West.

«Dici che ce la facciamo ad atterrare?» domandai.

«Sembra proprio che non sia alternativa,» rispose cupo.

«E poi?»

«Che ti posso dire? Abbiamo la slitta, la tenda, le pellicce. Cibo e combustibile per il fornelletto per una settimana. C’è il fucile, ma ci saranno almeno mille miglia prima di trovare qualcosa da cacciare. Faremo del nostro meglio.»

«Avremmo dovuto portare un’elica di riserva.»

«Già. Ma erano altri chili e ogni chilo contava. E chi lo sapeva che si sarebbe rotta?»

«Non ce la faremo mai con provviste per una sola settimana.»

«Eh già! Però è un peccato deludere il Capitano Harper.» Ray sorrise. «A quest’ora dovrebbe essere già qui attorno con l’Albatros, che ci aspetta.» L’Albatros era la nave che ci aveva portati a Little America qualche mese prima, poi avrebbe circumnavigato il continente per riprenderci oltre la Terra di Enderby al nostro arrivo. «Ma siamo nella stessa situazione del Maggiore Meriden e di sua moglie… e di tutti gli altri. Scomparsi senza lasciare traccia.»

«Hai letto il diario di Scott? Cosa ha scritto dopo aver raggiunto il polo nel 1912, cosa hanno trovato insieme ai corpi?»

«Sì. Non è proprio una lettura allegra. Ma noi non torniamo indietro. Che senso avrebbe.» Mi guardò e sorrideva di nuovo. «Ehi, Jim, perché non proviamo a raggiungere quella montagna luminosa che abbiamo visto? È abbastanza strana da valere una visitina. In una settimana dovremmo farcela.»

«La penso come te,» dissi.

Non parlai più, perché i picchi di ghiaccio frastagliati si stavano avvicinando parecchio. Trattenni il respiro mentre il piccolo aereo virava attorno a una sottile guglia nera e scendeva verso un minuscolo tratto di neve liscia tra i cumuli di ghiaccio. Avrei potuto risparmiarmi l’ansia. Sotto la guida straordinariamente abile di Ray, i pattini toccarono la neve senza quasi un sobbalzo. Scivolammo veloci sul ghiaccio e ci fermammo poco prima di un ampio crepaccio spalancato.

“Propongo,” disse Ray, “di passare la prima notte sull’aeroplano. Siamo già stanchi. Qui possiamo stare al caldo e dormire. Per l’acqua abbiamo molto ghiaccio che possiamo sciogliere. Poi andremo verso la montagna luminosa.”

Ero d’accordo: Ray Summers ha quasi sempre ragione. Tirammo fuori la slitta, la caricammo, prendemmo le nostre attrezzature e preparammo tutto per la partenza verso la montagna luminosa, che si trovava a poco più di cento chilometri da noi. Il termometro segnava venti sottozero, ma le nostre pellicce erano abbastanza calde, consumammo una cena frugale e dormimmo nella cabina dell’aereo.

La mattina seguente partimmo per tempo, dopo aver bevuto l’ultimo sorso di cioccolata calda dai nostri thermos, che abbandonammo. Abbiamo preso un leggero ma potente fucile sportivo con mirino telescopico e diverse centinaia di munizioni. Ray lo sistemò sulla slitta, anche se a mio avviso non ne avremmo mai avuto bisogno… a meno di non essere costretti a farla finita in modo rapido.

«No, Jim,» disse. «Portiamolo. Non sappiamo cosa troveremo alla montagna splendente.»

Quando ci mettemmo in cammino l’aria era gelida: venticinque gradi sottozero e un vento tagliente che soffiava forte. Bastava però, lo sforzo di trainare la slitta per tenerci al caldo. Quel primo giorno percorremmo ventinove chilometri e per fortuna trovammo un buon punto per sistemarci al riparo di una cresta rocciosa.

Nella notte cadde una leggera nevicata. Quando ripartimmo, la temperatura era scesa a trentacinque sottozero. Lo strato di neve fresca nascondeva le irregolarità del ghiaccio, rendendo il traino estremamente difficile. Dopo una giornata estenuante, eravamo riusciti a percorrere appena ventiquattro chilometri.

Il giorno seguente il cielo era carico di nuvole cupe, e soffiava un feroce vento freddo. Avremmo dovuto rimanere in tenda, ma la carenza di cibo rese indispensabile continuare a muoverci. Dopo esserci sconsideratamente cibati con un generoso stufato di pemmican caldo, ci siamo sentiti decisamente meglio; anche se quella mattina avevo inizialmente i piedi così doloranti per il gelo da non riuscire a infilarli negli stivali.

Camminare, quel giorno, fu per me estremamente doloroso, ma riuscimmo comunque a coprire una buona distanza, perché qui il ghiaccio era più liscio. Ray si prese cura di me, ma io non avevo più la forza di andare avanti: il dolore era insopportabile e sapevo che non c’era speranza di uscirne vivi. Pensai di prendere alcune delle nostre compresse di morfina, ma era Ray che le gestiva e si rifiutò di darmele e di proseguire senza di me.

Durante la marcia successiva avvistammo la montagna splendente, e questo mi risollevò notevolmente il morale. Era davvero una cosa curiosa. Un cono di luce dai fianchi perfettamente dritti, più ripido dei vulcani normali. La cima era aguzza, i fianchi lisci come se fossero stati tagliati da un tornio gigantesco. Brillava di pura luce bianca, in una costante e immutabile luminosità come di latte. Si ergeva dal nero e dal giallo opaco della desolazione congelata da cui sorgeva come un bianco dito a indicare speranza.

La mattina successiva la temperatura era leggermente più alta. Ray continuava a curarmi i piedi con grande attenzione, ma ci vollero quasi due ore prima che riuscissi a infilare gli stivali. Ancora una volta provai a convincerlo a lasciarmi lì, ma lui rifiutò categoricamente.

Raggiungemmo la base della montagna splendente dopo tre altre marce. Nell’ultima notte avevamo finito il combustibile per il fornello, usato tutto durante il gran freddo, sicché non potevamo più sciogliere il ghiaccio per bere. Mordemmo a fatica l’ultimo pezzo di pemmican secco.

Pochi minuti dopo aver ripreso il cammino, Ray si fermò di colpo.

«Guarda!» esclamò.

Vidi ciò che aveva lui già visto: il relitto di un aeroplano, le ali accartocciate e annerite dal fuoco. Ci avvicinammo a fatica.

«Un biplano Harley!» esclamò Ray. «È l’aereo del Maggiore Meriden! E guarda l’ala! Sembra che sia stata bruciata!»

Esaminai l’ala e vidi che era annerita dal calore. Il metallo era fuso e contorto.

«Ho visto parecchi relitti, Jim. Ho visto aerei bruciare mentre precipitavano e mai nulla di simile. La fusoliera e i motori non hanno preso fuoco. Jim, qualcosa è partito da quella montagna di luce e li ha abbattuti!»

«E loro sono…?» cominciai a chiedere.

Ray frugò nella cabina di pilotaggio piena di neve.

«No. Non ci sono. Probabilmente sarebbe stato meglio se fossero morti qui. Rapido e misericordioso.»

Esaminò i motori e le eliche.

«No. Non sembra esserci nulla fori posto. Qualcosa li ha abbattuti!»

Riprendemmo il cammino.

La montagna splendente era davanti a noi come un enorme cono di fuoco. Doveva essere alta circa 900 metri, lo stesso alla base. Aveva pareti lisce e dritte, come se fossero state tornite in un cristallo di rocca color latte. Brillava di luce bianca intensa e costante.

“Non è naturale!” borbottò Ray accanto a me mentre ci avvicinavamo a fatica.

Eravamo a meno di un chilometro dalla base del cono di fuoco. Presto notammo un altro dettaglio straordinario: sembrava che alla base della montagna ci fosse una recinzione di metallo argentato che spuntava dalla neve.

«Ha un muro attorno?» esclamai.

«A quanto pare,» disse Ray. «Sembra costruita su una piattaforma di metallo rotonda. Ma da chi? Quando? Perché?»

Ci avvicinammo allo strano muro. Era fatto con un metallo bianco, forse alluminio o comunque con una lega argentata. In alcuni punti era alto otto metri, ma neve e ghiaccio si erano accumulati contro. La liscia parete bianca della montagna splendente sorgeva alcune centinaia di metri più all’interno rispetto al muro.

«Diamo un’occhiata.» suggerì Ray. «Possiamo arrampicarci su quel cumulo di ghiaccio. Secondo me, il posto deve essere stato costruito da esseri umani!»

Seguimmo il suo suggerimento, ci arrampicammo e le nostre teste si trovarono oltre la sommità del muro.

«Un lago di fuoco!» gridò Ray.

Davanti a noi si stendeva, infatti, un lago di fuoco liquido. Il muro di alluminio bianco era spesso una trentina di centimetri. Formava un enorme serbatoio circolare, di quasi due chilometri di diametro, con il cono di fuoco bianco al centro. Il serbatoio era colmo di un liquido straordinariamente brillante e luminoso che arrivava fino a meno di mezzo metro dal bordo: luce liquida!

Ray immerse una mano nel liquido. Quando la ritirò, le sue dita parvero fatte di fuoco, radiose, scintillanti, da cui cadevano gocce lucenti. Con uno sforzo istintivo, scosse via le gocce, strofinò la mano sui vestiti e la infilò di nuovo nel guanto di pelliccia.

«Accidenti, è gelatissimo!» mormorò. «Congelerebbe anche una statua di bronzo!»

«Luce fredda!» esclamai. «Chissà quanto varrebbe una bottiglia di questa roba negli Stati Uniti!»

«Il cono deve essere una fabbrica che produce questa sostanza,» disse Ray, afferrandosi la mano. «Forse pompano il liquido fino in cima che poi scorre sui lati: questo spiegherebbe perché il cono è così luminoso. La sostanza potrebbe assorbire la luce solare, come fa il solfuro di bario e potrebbe sfruttare una reazione chimica con l’aria, sotto l’effetto dei raggi attinici.»

«Bene, ma chi sta producendo luce fredda, dove la utilizza?»

«Mi piacerebbe scoprirlo e magari farci offrire un pasto caldo,» disse Ray, sorridendo. «Da queste parti fa troppo freddo per vivere in superficie. Devono aver costruito qualcosa sottoterra, in una caverna.»

«Allora troviamo l’ingresso.»

«Sai, è possibile che non ci vedranno di buon occhio. Questa montagna di luce potrebbe essere la causa della scomparsa di tutti quegli aviatori. Meglio portarci dietro il fucile.»

Fine della prima puntata

Traduzione © 2025 Franco Giambalvo
Immagini ottenute con Intelligenza Artificiale, Microsoft Designer.

 

+ posts

Fu tra i primi scrittori a specializzarsi nella fantascienza, e i suoi primi scritti risalgono alla fine degli anni venti, quando questo genere era stato da poco definito sulle riviste pulp, soprattutto ad opera di Hugo Gernsback.